Figlio e nipote d’arte, Angelo Muto è un tufese purosangue. La sua cantina è il centro nevralgico di un progetto dal concept autentico. Talmente originale che va raccontato
Il bello di avere una piccola azienda vitivinicola. Ce lo racconta Angelo Muto, vinificatore in Tufo. La sua Cantine dell’Angelo, con sede nella zona di Santa Lucia, a pochi passi dal confine con Torrioni, ha una storia relativamente breve, ma è un progetto che vale la pena raccontare.
Originariamente, come spesso accade in Irpinia, la sua famiglia conferiva uve per i grandi colossi. Suo padre, e prima ancora suo nonno, devoti coltivatori d’uva nel territorio di Tufo, arrivano così fino al 1992, l’anno della svolta. Il giovane Angelo riesce a convincere suo padre a comprare un terreno che di vigna non aveva niente. Un boscaccio impervio, un territorio senza apparente vocazione, per di più delicato da trattare per via delle numerose gallerie presenti. Ma quel terreno ha una particolarità: trovandosi proprio sopra le miniere di tufo, esattamente in prossimità degli ingressi delle gallerie da cui (fino all’inizio degli anni ’70) si ricavava la pietra tufacea, non poteva non avere una mineralità unica.
Nonostante l’enorme lavoro, in qualche anno il bosco diventa una vigna in piena regola, con la prima bottiglia etichettata nel 2006.
Oggi Cantine dell’Angelo riceve enoturisti ed appassionati da tutto il mondo, che raggiungono la Angelo e sua moglie Franca in cantina e in vigna per assaggiare i loro vini e abbandonarsi ad un racconto, raro connubio di umiltà e competenza, sulla storia di questa piccola cantina dell’entroterra irpino che ha caparbiamente seguito i propri convincimenti, credendo nel territorio.
“Il bello di avere una cantina piccola è che posso fare le mie scelte, sapendo di incontrare il favore di una nicchia di estimatori che il vino lo vuole così, come una volta. Mi posso permettere il lusso di farlo perché ho pochi ettari e me ne posso occupare in prima persona.
In vigna ogni giorno è un giorno diverso: chi ha l’operaio gli impartisce delle direttive che verranno eseguite a prescindere da come si svolge la giornata. Per esempio se si programma un trattamento mattutino e ci si accorge che per via della brina questo va rimandato, solo chi lavora direttamente il suo terreno può decidere di cambiare strategia. L’operaio, giustamente, esegue a prescindere gli ordini. E alla fine capita che si debba ricorrere alla bravura dell’enologo per recuperare il tutto. Lavorare direttamente il proprio possedimento è una strategia appagante, ma che comporta anche delle rinunce. Io non faccio il rosso, per esempio, perchè non posso stare in due posti contemporaneamente”.
Al primo impatto Angelo si presenta serioso, quasi scostante. Ma si vede subito che non è il suo terreno di gioco. Durante la lung(hissim)a chiacchierata, durata un intero pomeriggio, si rivela presto un interlocutore affabile e un padrone di casa gentile e attento. Forse l’aver intravisto nei miei occhi la stessa passione per questa terra all’improvviso lo scioglie. È come se avesse capito di avere di fronte qualcuno che sta dalla sua parte e si apre totalmente: “Nessuna chimica, chilometro zero e vendemmia fatta lasciando spazio alla natura. Anche se l’annata è difficile, fallimentare, a me non interessa. Quell’annata brutta si sentirà nel bicchiere. Ma è una cosa necessaria. Se avessi voluto tutto piatto mi sarei messo a produrre Coca Cola, non vino!”.
E intanto versa il primo calice di “Miniere”, e comincia a raccontarmi altri interessanti dettagli di una vita spesa tra le vigne di Greco. Mi racconta che quelle alle miniere è stata solo la sua prima scommessa. Qualche anno dopo la famiglia Muto, infatti, mette gli occhi su un altro territorio dal grande fascino e di grande valore storico per il Greco di Tufo, il vigneto di Torrefavale. Qui,si narra, venne piantato per la prima volta il greco.
Qualcuno potrebbe chiedersi come mai un vigneto con queste potenzialità sia stato a lungo abbandonato nonostante la grande vocazione e il valore storico.
La risposta è semplice, e posso garantirvi che l’ho potuta testare direttamente, sulla mia pelle. Arrivare su, a Torrefavale, non è una impresa per tutti. E ad oggi rappresenta una delle più spettacolari ed emozionanti esperienze che possiate realizzare nel visitare un’azienda vitivinicola in Irpinia.
A Torrefavale infatti si arriva solo in 2 modi: a piedi, sconsigliato, o con la jeep. Ho provato quest’ultima opzione e vi posso garantire che la ricorderò per sempre. Una visita esperienziale all’insegna di giochi d’equilibrio impensabili, incredibili manovre, sterzate da brividi e rumori sinistri. E la cosa incredibile è che tutto questo è stato fatto ad un’andatura di 10 km. all’ora!. Il terreno, di proprietà del comune è a dir poco dissestato. Alla guida di un’inarrestabile jeep sempre lui, Angelo Muto, che con invidiabile serenità nonostante la situazione, mi conduce in cima a Torrefavale, per una esperienza memorabile (se ci penso oggi al limite del folle). Un viaggio segnante che però dimentichi non appena arrivi in cima: una veduta panoramica che spazia fino al Taburno e a Salerno.
Il terreno viene curato senza nessun diserbante, nessuna irrigazione. Ci pensa la natura, con dodici ore di sole al giorno, un’escursione termica perfetta e la vicinanza del molino di Tufo (il sito dove veniva lavorata la pietra tufacea appena estratta) a fare il resto. Una vigna in declivio: “Dalla parte alta a quella più bassa ci sono 100 metri di dislivello. È il prezzo che ho dovuto pagare per capire a quale altitudine piazzare le viti. E poi qui ho lasciato la vecchia raggiera avellinese, una validissima invenzione dei nostri padri che caratterizzava il nostro territorio e ci rendeva orgogliosi. E che tra l’altro ha polifenoli diversi rispetto alla classica spalliera. Oggi questo sistema è scomparso, soppiantato da metodi più semplici”.
Quando ha capito che Torrefavale era un altro esperimento perfettamente riuscito, Angelo ha subito deciso di farne un cru. “Ma a questo punto è sorto un problema per l’azienda: il vino prodotto sulle miniere da molti era considerato un vino di secondo piano, un “greco base”. Ecco perché abbiamo deciso di trasformarlo in un secondo cru, evitando gerarchie”.
“Torrefavale” e “Miniere“, i due cru prodotti da Cantine dell’Angelo, sono validissime espressioni delle caratteristiche più pregnanti del Greco di Tufo DOCG: acidità, colore e tannini, oltre a spiccati sentori di zolfo. Eppure sono, incredibile a dirsi, due vini diversissimi tra loro. Morbido e più elegante l’uno, spigoloso e stentoreo l’altro.
La degustazione continua. Così come il racconto.
Nel 2014 la famiglia Muto segna un altro importante passo nel personalissimo percorso di recupero della tradizione vitivinicola irpina. Angelo Muto impianta la coda di volpe. Nuovamente. Fino alla metà degli anni ’90 infatti, nel territorio di Tufo questo vitigno era onnipresente, giacchè impiegato per spezzare l’acidità del greco. In ogni vigna era presente circa il 15% di coda di volpe. Poi i colossi hanno deciso di cambiare le cose, stravolgendo anche questo aspetto e pretendendo un greco in purezza. Decretando praticamente l’eliminazione della coda di volpe dal territorio.
Ma anche questa scelta controcorrente paga, fin da subito: “Dal 2018 siamo usciti con un coda di volpe in purezza, i primi a Tufo ed attualmente gli unici a produrlo con uve esclusivamente coltivate in questo comune. Abbiamo recuperato così la vecchia identità territoriale. Perchè si era persa sia la metodologia di lavorazione che la natura dei vigneti”.
Una vita a credere nel territorio, tanto da co-fondare il progetto Otto terre, per salvaguardare il territorio e valorizzarne i prodotti delle terre del Greco di Tufo. Ma Angelo è anche uno dei pochi a fare una scelta etica. Vini naturali, quantitativi ridotti e un sogno condiviso con altri due aziende (Cantine del Barone e Il Cancelliere), rispettivamente vinificatori di Fiano di Avellino e Taurasi. Le tre aziende hanno creato il progetto VI.T.I – Vignaioli in Terre d’Irpinia. Un progetto originale e coerente: ogni cantina produce solo una tipologia di vino, quella del proprio territorio, con metodi naturali e senza modificare il prodotto artificialmente. La gestione e la promozione la si fa insieme, per il resto ognuno pensa a vinificare al meglio l’espressione del proprio areale d’appartenenza.
La degustazione arriva a conclusione. Prima di andarmene, però, mi viene spontanea una domanda: “Vini naturali. Non puoi fare il rosso per filosofia di lavoro. Annate sbagliate che non si possono correggere. E quell’infernale ‘Camel Trophy’ ogni volta che sali a Torrefavale. Ma chi te lo fa fare?”.
“Il vino – risponde Angelo mentre mi stringe la mano – deve essere poesia, amore e passione. Nasce tutto nel territorio, e noi proviamo a mettere il territorio nel bicchiere. Fare scelte controcorrente e combattere sempre ti crea dei nemici, lo so. Ma io combatto perché sono convinto che quando qualcuno arriva dal nord o da altri territori per venire a conoscere i nostri vini, da noi dovrebbe trovare la raggiera avellinese e la coda di volpe. Perché sono la nostra storia, le nostre radici. Ciò che ci consente di essere ancora qui a raccontarla, questa poesia”.