Il pezzente di Freda: l’insaccato resiliente che profuma d’Irpinia

Carmine Cicinelli

Carmine Cicinelli

pezzente copertina

Da summa di scarti a prodotto di pregio, da necessità contadina a gemma gastronomica. È l’evoluzione del pezzente irpino, espressione autentica di un territorio che ha nella storica macelleria pratese un custode della tradizione

Prima le sopressate. Poi le salsicce. Solo alla fine, con gli scarti, il pezzente. Era questa la regola non scritta che nel giorno dell’uccisione del maiale guidava il lavoro dei contadini di un tempo. Le priorità erano chiare. Anche perché una volta che la carne era disponibile sui tavoloni, cominciava una corsa per lavorarla nel minor tempo possibile. E siccome del maiale, si sa, non si butta via niente, gli scarti delle lavorazioni pregiate e il grasso (spesso insieme a pezzi di polmone e ad una spolverata di sale) diventavano gli ingredienti da assemblare in un insaccato che sarebbe servito ad insaporire i piatti poveri. Il pezzente era l’ingrediente che ingrassava le minestre, a cui conferiva corpo e sapore. E che quasi mai veniva consumato da solo.

Ma se sopressata e salsiccia sono ancora oggi molto presenti sulle nostre tavole, il progressivo scemare di certe pratiche contadine e il cambio delle abitudini alimentari rischiavano di rendere il pezzente uno sbiadito ricordo. Eppure non è andata così. Perché nella Valle del Sabato e in particolare a Prata di Principato Ultra, resiste indomita la tradizione del pezzente, grazie alla macelleria Freda. E con essa resistono quei frammenti di storia rurale che per secoli hanno caratterizzato questa comunità.

Mmiezz’o stritto r’a Prata, nella zona vecchia del paese, la sapiente arte norcina dei fratelli Giuseppe e Antonio Freda rende merito alle vecchie pratiche contadine, facendosi custode di una gemma gastronomica irpina davvero inimitabile. Anzi, se la salsiccia e la sopressata col tempo hanno mantenuto una monotona costanza, la macelleria Freda, in maniera silente e forse anche inconsapevole, ha messo in pratica una sperimentazione, adeguando il pezzente ai tempi, senza stravolgerne tuttavia la funzione originaria.

E allora com’è fatto il pezzente proposto dalla Macelleria Freda? “Innanzitutto non ci va la cotica. Quella serve per il cotechino”, esordisce Giuseppe. “Il nostro pezzente è fatto di tagli selezionati, come la spalla, il guanciale ed il muscolo, conditi con sale, peperoncino e aglio”. Parti del maiale che, come nel caso del guanciale per esempio, richiedono lavorazioni complesse. “Lavorare il pezzente ha bisogno di molta pazienza e molto tempo”, aggiunge Antonio.

Ma torniamo alla lavorazione. “In seguito la carne viene insaccata. Giunge infine la fase di asciugatura, un momento topico: la ciliegina su una torta già buona, ma che con questo passaggio sprigiona tutta la sua reale essenza”, chiosa Giuseppe. Un ambiente ad hoc, in cui il legno di cerro inonda i pezzenti e li asciuga. In un paio di giorni (al massimo tre, a seconda del clima) i salumi perdono circa il 40% del loro peso, raggiungendo la condizione ideale per essere venduti agli affezionatissimi clienti (tra cui importanti ristoranti) che, meglio se su prenotazione, fanno il pieno di pezzenti tutto l’anno.

Ma qual è il segreto del pezzente proposto dalla famiglia Freda? Mi risponde Antonio: “Molto spesso i macellai preferiscono fare il cotechino, che però ha un altro sapore, un altro prezzo, anche un’altra longevità”. L’assenza di cotenna all’interno del pezzente infatti consente a quest’ultimo di “invecchiare meglio”: quando seccato a dovere, a differenza del cotechino (che diventa stucchevole perché la cotenna diventare durissima), il pezzente migliora il suo gusto.

Pur essendo protagonista di moltissime ricette irpine, tra cui la menesta maretata o il più classico dei ragù domenicali, per dare ancora più enfasi a questa chicca gastronomica nostrana il pezzente può essere ulteriormente essiccato in casa, per poi essere conservato sotto sugna o preso letteralmente a morsi come il più gustoso dei salamini! Ora capirete perché, se doveste richiedere pezzenti freschi (cioè senza affumicatura) Antonio e Giuseppe non solo vi guarderanno male, ma probabilmente non ve li venderanno nemmeno! Io vi ho avvertito.

In fondo i fratelli Freda hanno ragione: mangiarlo fresco significa perdere la caratteristica più inconfondibile di questo salume, ossia quell’affumicatura che conferisce ad ogni pezzente un profumo persistente ed inebriante. Tanto che i più integralisti lo usano come profumatori per ambienti!

Pezzenti secchi

La storia del pezzente della Valle del Sabato racconta di un’origine molto antica, legata come detto alla routine contadina. Questi antichi rituali, in particolare nel territorio di Prata, cominciarono ad uscire dalla dimensione familiare puntando già diversi secoli fa sul commercio di animali e carne di qualità. Il perché me lo ha spiegato Dino Giovino, Console Touring Club e cintura nera di pratesità. “Pochi sanno che il barone di Prata concedeva in fitto il bosco ricco di ghiande per far pascolare i maiali dei pratesi e degli altri centri vicinori (va ricordato anche che Montefredane, Tufo e Altavilla godevano della “promiscuità di acquare, pascere e lignare” nella foresta locale) e che il commercio di questi animali costituiva una sicura fonte di guadagno tanto da coinvolgere l’arciprete e altri notabili locali (soprattutto nel XVII sec.). Una attività a tal punto diffusa da impressionare favorevolmente alla fine del ‘600 un Regio Tavolario napoletano, qui impegnato nella valutazione del feudo e, implicitamente, del commercio dei maiali tra il bosco ed il principale mercato nelle vicinanze”.

Ad Atripalda si teneva infatti un mercato commercialmente importantissimo (che in passato ha fatto la differenza anche per la diffusione del baccalà in Irpinia). Ogni settimana, vista la vicinanza, i commercianti pratesi vi si recavano con gli animali ancora vivi. In base alle richieste macellavano il giusto. I capi che non venivano venduti ritornavano a scorrazzare nei boschi di Prata, nuovamente allo stato brado, alla ricerca di ghiande. Con una serie di vantaggi: innanzitutto non veniva mai macellato più del richiesto, ma soprattutto i clienti avevano carne freschissima, di un animale macellato al momento e di conseguenza soggetto ad un calo ponderale minimo.

La tradizione di macellai ed allevatori della famiglia Freda comincia proprio in questo contesto, in cui la richiesta di carne era particolarmente alta e gli animali locali particolarmente apprezzati. Quando Matteo Freda (bisnonno degli attuali proprietari), di mattina brillante liceale a Benevento e di pomeriggio anima culturale della comunità pratese, rimane orfano, la necessità di lavorare con continuità lo porta a dedicarsi all’attività più in voga all’epoca, l’allevamento degli animali da macello.

Qualche anno dopo suo figlio Antonio prosegue l’operato del papà e apre nella parte vecchia del paese, dove ancora oggi si trova, una beccheria. Si chiamava così all’epoca la macelleria che trattava principalmente le carni ovine (il maschio della pecora era detto per l’appunto becco), oltre a quelle bovine e suine. Nello stesso storico punto in cui oggi si trova ancora la macelleria Freda.

Dopo qualche anno dalla sua inaugurazione, avvenuta nei primi del ‘900, nella beccheria inizia a lavorare anche il figlio di Antonio, Matteo. Quest’ultimo abbandona la commercializzazione per dedicarsi prevalentemente ad allevamento e macellazione. Matteo Freda, che comincia l’opera di rivalutazione del pezzente, fa dell’attività di macelleria una missione di vita. Matteo arrivava fino in Puglia se necessario per trovare gli animali di migliore qualità. Insieme ai figli Antonio e Giuseppe, intanto inseritisi in bottega, diventano gli alfieri della gastronomia di qualità nostrana, custodi di lavorazioni faticose ma appaganti e soprattutto eredi di una stirpe che la storia di questo salume l’hanno man mano costruita.

Una foto storica dell’Aprile 1934 – Un ringraziamento all’Arch. Claudio D’Onofrio

Oggi la Macelleria Freda è un punto di riferimento ed una meta fissa per la ristorazione di qualità, ma anche per chi vuol fare un regalo gradito. Presentarsi a casa di amici con dei pezzenti irpini come cadeau potrebbe farvi scalare le classifiche di gradimento!

Per quanto riguarda il suo impiego in cucina, Giuseppe ha una sua teoria: “Cucinare il pezzente è un’arte. Occorre andare per gradi, per evitare di sprecare la materia prima. Consiglio a tutti per cominciare di farlo al ragù, per capire quello che può dare ad un piatto. È come quando si nuota. Bisogna cominciare dall’acqua bassa. Ecco, per il pezzente l’acqua bassa è il ragù!”. Poi ci si può sbizzarrire, fino ad arrivare alle polpette di pezzente. “Mia moglie lo mette addirittura nel gateau, che assume un profumo ed un sapore unico”. Le preparazioni classiche sono tante. Molti lo apprezzano al cartoccio sotto la cenere o alla brace, ma probabilmente la ricetta più famosa è quella della menesta maretata, la tipica zuppa di verdure accompagnate dalla carne. Potenzialità infinite, che Antonio lapidariamente riassume così: “Il pezzente fa tutto quello che fa la salsiccia, ma con più gusto”.

Il fenomenale ragù di pezzente

Il pezzente è dunque un unicum dalla storia interessante e dalle grandissime potenzialità, ma che non ha probabilmente la fama che si merita. Si pensi al lavoro fatto negli ultimi anni sul pezzente della montagna materana in risposta al quale la Regione Campania liquida la questione in maniera un po’ troppo frettolosa (e semplicistica), confondendo pezzente, salsiccia di polmone e nnoglia. “Talvolta viene confuso con la salsiccia piccante o col cotechino. Purtroppo è normale, quando non c’è nessuna tutela e nessuno strandard da rispettare ognuno può fare la ricetta a modo proprio”.

L’idea che mi sono fatto io è che il pezzente somiglia un po’ a quegli animali in via di estinzione: sta a cuore a tutti, ma sembra sempre che sia qualcun altro a doversene occupare. È da qui che occorre ripartire. Ringraziando la macelleria Freda per il lavoro quotidiano che fa ed avendo ben a mente le parole di Dino Giovino: “cercate questa leccornia, godetevela nei sughi ed annaffiatela con Aglianico, ma senza dimenticare che custodisce il sapore della storia dei contadini locali. Qui allevare il maiale era ed è una cosa seria.