La pasticceria che non ti aspetti: il Dolcivendolo

Carmine Cicinelli

Carmine Cicinelli

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Una pasticceria che sforna macarons, disquisisce dell’origine del Fiano lapiano e realizza dolci di livello di certo non te la aspetti in un paesino di poche anime, nella più profonda provincia di Avellino. Eppure è ciò che mi è capitato a Lapio.

Un fugace incontro a casa di amici si trasforma in un graditissimo invito a pranzo, per cui la guantiera di pastarelle è il minimo con cui contraccambiare. A Lapio non ci sono grandi alternative, anzi non ce n’è nessuna rispetto a “Il dolcivendolo”, originale pasticceria che si trova a due passi dallo splendido Palazzo Filangieri. Le sorprese non si fermano al nome del locale, ma proseguono quando incontro Andrea, lapiano e fortemente attaccato alle sue radici. A prezzi più che abbordabili, Andrea mi combina un servizio per il quale lo benedirò per tutta la giornata: una guantiera di pasticcini mignon, classici e semifreddi, assortiti, gustosissimi e in alcuni casi anche originali.

Sono le classiche contraddizioni che ti scioccano. Un pasticcere che fornisce una comunità di così pochi abitanti che non si accontenta di fare il compitino, come una normale attività di provincia (per di più senza concorrenza) sarebbe tentata a fare, bensì onora il gusto (ed i suoi clienti), trovando il tempo anche di mettere in vetrina un inatteso mix di tradizionale ed esotico (tozzetti della tradizione contadina accanto a macarons francesi). E siamo in una normale giornata infrasettimanale, tanto che Andrea mi ammonisce: se lo avessi avvertito mi avrebbe trattati meglio. Ma a me va bene così, altroché!

Andrea (Filadoro, un cognome non casuale) è bravura e passione, ma anche competenza. Provocato da una mia domanda sul perché nel suo locale proponga un prosecco veneto quando Lapio è la patria del Fiano di qualità (che si presta benissimo tra l’altro alla spumantizzazione) Andrea mi risponde con competenza, partendo dalle origini del vanto enologico di Lapio. Era in origine un dolcissimo accompagnamento delle più laute mangiate natalizie, ostico da realizzare ma soprattutto da conservare: nemico delle gabbiette senza mordente e dei sugheri poco tenaci e perfino delle bottiglie meno resistenti, il Fiano di Lapio in origine era una brutta gatta da pelare. Le bottiglie scoppiavano, in cantina o peggio ancora nel frigo, il processo di spumantizzazione produceva bottiglie che, anche quando rimanevano intatte dopo la stappatura, finivano per versarsi per buona parte, lasciando il classico “culo di bottiglia” agli astanti.

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Una bottiglia di Fiano fatto alla vecchia maniera

Andrea riapre in me reminiscenze lontane. Ricordo bene quando aprire una bottiglia di Fiano di Lapio era un’operazione impegnativa, altamente tattica, foriera di una strategia paramilitare collettiva non banale. L’impresa impiegava più unità, idealmente tre: uno che manteneva la bottiglia, uno che tirava via il tappo ed un terzo, il più importante, che reggeva con dovizia un secchio nel quale il vino si versava irrimediabilmente dopo averlo aperto. Ricordo altrettanto bene che proprio questa sua natura imprevedibile rappresentava l’origine di un rituale che era l’anima più vera di molti momenti vissuti a fine pasto, specie durante le festività natalizie.

Il fatto stesso di trattare quella bottiglia come una boccetta di nitroglicerina, di notare gli zii che al momento fatidico della stappatura si davano alla macchia, di assistere ad un’indecorosa caduta d’orgoglio femminile (che ricordavano, mai come in quel momento, di essere sesso debole) rappresentano momenti di convivialità difficili da dimenticare. E difficili da ritrovare oggi, perché quel modo di fare il Fiano secondo la ricetta originale è sempre più raro. Il Fiano di Lapio delle origini, non quello secco che conosciamo oggi, ma questa versione imprevedibile, difficoltosa e che non faceva sconti, era un prodotto unico. Genius loci lapiano per antonomasia, perso quasi del tutto, manco a dirlo, per ragioni di economia (a parte per chi ha le conoscenze giuste!).

Gabbietta fiano lapio
Una coraggiosa gabbietta zincata

Troppo dolce certo, e dunque non per tutti i gusti, ma anche dalla resa scarsa e dal risultato troppo imponderabile. Troppi minus alla base di un prodotto che invece, se fosse stato in qualche maniera protetto dalle protervie dell’economia e delle logiche di mercato, avrebbe di certo rappresentato oggi un vino unico al mondo, perché non replicabile altrove. Ed ulteriore vanto di una provincia sempre più ricca di giacimenti d’eccellenze.

Per concludere, e tornando al nostro Dolcivendolo, il congedo da Andrea è in linea con il personaggio e con la sua filosofia. Alla domanda sul perché non abbia un Fiano di Lapio in vetrina, la risposta è etica e schietta: “Non voglio creare problemi a chi lo vende da tanto tempo qui in zona e quindi mi accontento di tenerne una bottiglia commerciale per chi ne abbia proprio bisogno”. Una schiettezza e una forza che ritroviamo a fine pasto nella sua guantiera, a sua detta arrangiata, ma che a dirla tutta non trova, tra i tanti sedicenti pastry chef del Capoluogo, uno che realmente possa reggere il confronto.

La guantiera del Dolcivendolo