In Irpinia è tempo di vendemmia: il Fiano apre le danze

Carmine Cicinelli

Carmine Cicinelli

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Dietro alla produzione di uno dei vini italiani più incredibilmente complessi, ci sono tanti segreti, legati al territorio, alla lavorazione e ad una longevità che finalmente riporta questo vitigno su un piedistallo adeguato. Ma tutto parte dalla vendemmia…

L’inizio di ottobre è il periodo indicato per vendemmiare l’uva fiano. In Irpinia, dopo la falanghina e prima del greco, questi sono i giorni dedicati all’uva a bacca bianca fautrice dell’elegantissimo Fiano di Avellino DOCG. Per il resto d’Italia sarebbe una vendemmia tardiva (figurarsi se sapessero che alcuni integralisti aspettano la fine di ottobre per vendemmiarla!). In Irpinia è invece il periodo giusto per dar vita ad un vino molto apprezzato e longevo, protagonista assoluto delle principali guide enologiche.

Uva fiano pronta ad essere vendemmiata

Per ottenere il Fiano di Avellino DOCG ogni produttore ha due strade. Vendemmiare la propria uva proveniente dall’areale dedicato, quello rientrante nel territorio di 26 paesi della provincia di Avellino (Aiello del Sabato, Atripalda, Avellino, Candida, Capriglia Irpina, Cesinali, Contrada, Forino, Grottolella, Lapio, Manocalzati, Mercogliano, Montefalcione, Monteforte Irpino, Montefredane, Ospedaletto d’Alpinolo, Parolise, Pratola Serra, Salza Irpina, San Michele di Serino, San Potito Ultra, Sant’Angelo a Scala, Santa Lucia di Serino, Santo Stefano del Sole, Sorbo Serpico, Summonte). Oppure operare attraverso il conferimento, una pratica messa in atto specialmente dalle grandi aziende che acquistano l’uva da piccoli agricoltori dell’areale di produzione per raggiungere il quantitativo necessario a soddisfare il fabbisogno delle propria clientela. Sorvolando sui pro ed i contro di quest’ultimo sistema, il dato di fatto è che in questi giorni inizia la raccolta degli inconfondibili grappoli spargoli, con acini dalla buccia spessa e dal caratteristico, intenso profumo.

Vasconi per il conferimento dell’uva

A Lapio, dove con buona probabilità si concretizza il terroir migliore per questa coltivazione, la chiamano semplicemente uva bianca (per distinguerla dall’aglianico, alla base del Taurasi, altra DOCG producibile nello stesso paesino della Valle del Calore). Nonostante il nome del vino richiami il capoluogo irpino (accordi politici negli anni ’80 hanno voluto così), non è ad Avellino, per esposizione, terreno, clima ed escursione termica che si trova la migliore uva fiano. Molti concordano che se il vino si fosse chiamato Fiano di Lapio nessuno avrebbe gridato allo scandalo. Perché è qui che tutto è cominciato. Non tutti sanno infatti che in origine questo vitigno aveva tutt’altro scopo. Quando le certificazioni (la DOC del 1978 e la DOCG del 2003) erano ancora lontane e il vitigno era quasi esclusivamente appannaggio del territorio di Lapio, il Fiano era un lambiccato da fine pasto, dolce e molto ostico da conservare e consumare (ve ne parlo qui!).

Quello di Lapio è appunto un particolare terroir. Ossia un territorio che grazie ad una particolare combinazione di clima e suolo consente (ai più esperti) di distinguere all’interno dell’areale vocato ulteriori sottozone, con caratteristiche peculiari ed inconfondibili. Montefredane, Cesinali, Candida, San Michele di Serino e Summonte sono gli altri cinque terroir individuati dagli esperti: è qui insomma che il Fiano di Avellino DOCG acquista ulteriori note distintive, per questo ancora più interessanti. In linea generale tutto l’areale ha in comune terreni calcarei ed argille, con penetrazione di materia vulcanica (dovuta alla famosa eruzione di Avellino).

Sul piano organolettico, e prescindendo dai terroir, il Fiano di Avellino DOCG ha una discreta acidità, un buon volume, grande sapidità ed un colore peculiare, che richiama l’oro, con note fresche e agrumate, vicine alla pesca. A fare la differenza in questo vino è la permanenza sui lieviti finale: un affinamento grazie al quale il vino acquisisce grassezza ed equilibrio. I tempi dedicati dagli enologi alle singole fasi, permanenza sui lieviti compresa, è proprio quello che rende un’etichetta diversa da un’altra. Da sottolineare come, nonostante il disciplinare consenta di tagliare il fiano con un 15% di uve Greco, Coda di Volpe o Trebbiano, le migliori espressioni sono quelle che prevedono un Fiano in purezza.

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Oltre ad essere uno dei due DOCG bianchi del Sud Italia (l’altro si produce sempre in Irpinia, il Greco di Tufo), il Fiano di Avellino DOCG ha il merito di rappresentare come anticipato uno dei più interessanti bianchi da invecchiamento al mondo. Proprio l’aver consolidato questa idea di longevità (oltre alla relativa curiosità di esperti ed appassionati che monitorano il comportamento di questo vino nel tempo) ha favorito la nascita di realtà produttive emergenti, nonché l’aumento della superficie vitata dedicata a questa coltura. Vi assicuro che, partendo dalla vendemmia, fino alla degustazione in cantina o in enoteca, assaggiare un Fiano di Avellino è un’esperienza da vivere: in ogni calice si disvela un pezzo di territorio ampio e complesso, si rincorrono storie e aneddoti, si perseguono filosofie e scelte aziendali che diversificano il prodotto e aiutano ad amarlo.

Il Fiano di Avellino DOCG è una eccellenza d’Irpinia, uno dei cavalli di battaglia dell’intera provincia. Ora che tutti ne hanno capito il potenziale a lungo termine, con verticali che arrivano ad assaggiare etichette risalenti anche a oltre 10 anni fa (per chi ha ancora la fortuna di avere in cantina bottiglie così vecchie), il gioco si fa ancora più stuzzicante. Senza dimenticare che assaggiare un Fiano di Avellino è sì una gioia per i sensi, ma lo è anche per il portafoglio, dato che si tratta di un’eccellenza decisamente abbordabile nel suo impareggiabile rapporto qualità-prezzo.